di Alberto Peroni e Paolo Virgili
Uniformi e Armi n.119 del Marzo 2001

Mario Alberto Peroni nasce a Port Sayd, in Egitto, l’11 ottobre 1921, figlio di un funzionario della Compagnia Universale del Canale di Suez, volontario di guerra nel 1915, nella campagna del 1935 in A.O.I. e nel 1940.

Dopo essere rimpatriato dall’Egitto con la famiglia, il l settembre 1939, nel 1940 partecipa alla “Marcia della Giovinezza” su Padova dei Giovani Fascisti della G.I.L..

Nel Gennaio 1941 viene, su sua richiesta, inviato in Libia ed assegnato al 31 Btg. Guastatori “Compagnia Cacciatori Carri” della Divisione corazzata “Ariete”.

Partecipa così alla seconda ed alla terza offensiva italo-tedesca sul fronte dell’Africa Settentrionale e, dal dicembre 1942 al Maggio 1943, alla strenua resistenza in Tunisia.

Decorato di Croce di Ferro tedesca di seconda classe, appuntatagli personalmente dal Feldmaresciallo Rommel sul fronte di Tobruk, e di quattro Croci di guerra al Valor Militare, il 7 Maggio 1943 viene per la seconda volta gravemente ferito in un durissimo scontro tra carri; per quest’azione viene decorato sul campo di Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione:

“Sempre primo in ogni azione rischiosa, durante una puntata offensiva con carri armati, unico superstite di equipaggio riusciva a concentrare il fuoco del proprio pezzo contro sette carri armati nemici riuscendo ad immobilizzarli ed incendiarli tutti. Fulgido esempio di alte virtù militari e valore personale”.

Quello che segue è il suo ricordo di oggi.

Sono passati oltre 57 anni, una vita, e la memoria spesso incontra dei buchi neri che non riesco, malgrado tutta la mia buona volontà, a colmare.

Il 7 maggio 1943 era una giornata abbastanza grigia e piovosa.

Eravamo in formazione con tre semoventi M41, armati con cannoni da 75/18, e due carri M14/41 armati con pezzi da 47/32; ci dirigevamo verso Medjez el Bab a circa 64 km a sud di Tunisi.

A seguito dell’annientamento della divisione corazzata “Ariete”, immolatasi ad El Alamein, eravamo aggregati alla 15° Panzer o, meglio, a quello che rimaneva di questa superba divisione tedesca.

Il nostro compito era quello di sganciare dai capisaldi alcuni reparti di fanteria della Divisione “Superga”, composta per lo più da giovani di leva della classe 1924, recentemente giunti in Tunisia dall’Italia ed immediatamente avviati sulla linea del fuoco.

Mentre con la fanteria tedesca eravamo intenti a sganciare i nostri camerati, apparve in lontananza una colonna di carri inglesi ed americani formata da oltre quaranta mezzi del tipo “Bren Carrier”, “Crusader”, “Stuart”e “Sherman” che si avvicinavano velocemente accingendosi al combattimento.

Ci mettemmo subito in posizione di ventaglio rovesciato e da una distanza di circa 2000 metri aprimmo il fuoco su una massa impressionante di carri nemici che tuttavia si avvicinavano molto serrati tra di loro.

Al contrario noi, come la nostra esperienza di guerra corazzata nel deserto ci consigliava, eravamo a circa 200 metri l’uno dall’altro

Il terreno era abbastanza pianeggiante e con qualche altura fuori dalla zona del combattimento.

Giunti ad una distanza di circa 1000 metri, cominciammo a colpire i primi carri nemici; eravamo favoriti dalla relativa altezza e visibilità dei nostri carri rispetto a quelli anglo-americani e dalla compattezza delle loro formazioni.

Sembrava tutto facile, troppo facile, un gioco da ragazzi!

Poi cominciarono a piovere da tutte le parti i loro proietti da 75mm.

Manovrando alla massima velocità consentita, continuammo a sparare all’impazzata. Ricordo che ad un certo punto, quando eravamo a circa 500 metri, non adoperammo più il congegno di puntamento; aprivamo la culatta e puntavamo i carri nemici attraverso l’anima del pezzo.

Non tenni naturalmente alcun conteggio dei carri distrutti ma ricordo solo nitidamente che, essendo a benzina, bruciavano con tanta facilità.

Allorquando stavamo per soccombere dinanzi alla soverchiante disparità di forze, arrivarono in nostro aiuto alcuni Panzer IV e due Tigre nuovi fiammanti.

Proprio in quell’istante ricordo di aver intravisto la nuvoletta di uno Sherman che sparava nella mia direzione.

Sebbene il mio carro fosse oramai immobilizzato, continuai disperatamente a combattere ed a colpire il nemico finchè gli anglo-americani, dinanzi ai sopraggiunti carri tedeschi armati con pezzi da 90mm. che non perdonavano, si ritirarono.

Persi i sensi per gravi ferite al bacino ed alle gambe e fui soccorso da alcuni soldati tedeschi; siccome avevo il nastrino della croce di ferro datami da Rommel durante la presa di Tobruk, fui caricato con altri feriti tedeschi su di un’autombulanza, portato a Biserta e da qui, su uno JU 52, all’ospedale militare di Caserta.

Ritenuto anch’io un soldato germanico fui ricoverato presso il reparto tedesco al primo piano. Dopo due giorni, ripresa conoscenza, dissi che ero italiano e fui subito trasferito al piano terra, nel reparto italiano, dove si stava assai peggio.

All’ospedale militare di Caserta, pochi giorni dopo, appresi la notizia che, con la resa del maresciallo Messe, avevamo abbandonato definitivamente l’ultimo lembo in terra d’africa e, con esso, le speranze, i sogni ed i sacrifici di mezzo secolo.

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